Un professore di Harvard scopre qualcosa sulla felicità che i saggi vedici conoscevano già da lungo tempo.
In seguito alle sue attente ricerche sul tema della felicità umana, le scoperte dello spiritoso e intelligente dottor Daniel Gilbert, professore di filosofia ad Harvard, hanno rivelato un’importante verità che risulterà già familiare a chi studia lo Srimad-Bhagavatam. Questo venerabile testo (nel Capitolo 87 del Decimo Canto) riporta un dibattito tra alcuni eruditi personaggi – dottori nel senso originale del termine – che abitavano su un pianeta chiamato Janaloka, che può essere considerato l’Harvard di tutto il nostro universo. Durante questo colloquio celestiale, uno dei saggi dice che all’inizio della creazione, i Veda, nella loro forma personale (sruti) svegliano Maha-Visnu dal Suo profondo sonno mistico recitandoGli preghiere di lode con la saggezza che essi incarnano o personificano.
La parola sanscrita Veda significa conoscenza. Anche se tutta la vera conoscenza è Veda, in senso letterale Veda indica la conoscenza non creata ed eterna, sulla base della quale viene creata l’intera creazione da Maha-Visnu (e dai Suoi incaricati). Il mondo è progettato sulla base della conoscenza vedica originale, così come degli ingegneri assemblano un aereo sulla base del progetto. Non si deve confondere il termine Veda con la “conoscenza” che noi umani deriviamo dalle nostre ricerche sul mondo materiale e dai nostri inutili sforzi di applicare l’”ingegneria” a piccole parti della creazione.
Tuttavia un umile operaio nella fabbrica della conoscenza umana come il professore Gilbert a volte si imbatte nella verità e ci sono delle verità da scoprire nel suo libro di successo “Imbattendosi nella Felicità” (Stumbling on happiness). Questa verità è riportata nel titolo del suo blog “Quello che non sai ti rende nervoso”, pubblicato in una pagina a tema del New York Times.
La nostra infelicità, fa notare il professor Gilbert, deriva non tanto dalla nostra condizione attuale, per quanto delicata essa possa essere, quanto dalla nostra ansietà per il futuro. Egli sostiene che abbiamo un meccanismo nervoso che può consentirci di rimanere felici anche in situazioni difficili; è la paura per l’incertezza del futuro che rende le persone ansiose e sofferenti. Il dottor Gilbert ha certamente ragione. Ecco dal Bhagavatam (10.87.32) la dichiarazione delle sruti al Signore.
Le anime sagge, consapevoli che la Tua Maya illude tutti gli esseri umani, offrono un intenso servizio d’amore a Te, che sei la fonte della liberazione. Come può la paura della vita materiale colpire i Tuoi fedeli servitori? D’altra parte invece, le Tue sopracciglia aggrottate – la triplice ruota del tempo – atterriscono ripetutamente coloro che rifiutano di prendere rifugio in Te.
In questo verso, i timori riguardo la vita (bhava-bhayam) vengono esplicitamente collegati al movimento del tempo, la cui ruota è composta di tre parti – passato, presente e futuro. Srila Prabhupada riporta succintamente nel suo commento alla Bhagavad-gita 10.4-5: “La paura è dovuta alla preoccupazione per il futuro.” Egli sviluppa questo concetto: La persona cosciente di Krishna non conosce la paura perché grazie alle sue attività è sicuro di tornare nel mondo spirituale, a casa, da Dio. Perciò il suo futuro è molto luminoso. Gli altri, invece, non sanno che cosa porterà loro il futuro, perché non hanno alcuna conoscenza di come sarà la loro prossima vita. Perciò vivono sempre in un’angoscia continua.
Un interessante termine sanscrito che indica uno stato di sicurezza, privo di ogni ansietà, è ksema. Esso deriva dalla radice verbale ksi, che significa risiedere, stare o abitare in modo particolare in una residenza protetta o segreta. Ksema come sostantivo significa salvezza, pace, riposo, sicurezza. Il dizionario Monier-Williams riporta che la frase ksemam te – “la pace e la sicurezza possono essere dentro di te” – è citata nel Libro delle Leggi di Manu come “una gentile risposta a un vaisya (un commerciante, che chiede se la sua proprietà è sicura”.)
Incontriamo il termine ksema nella Bhagavad-gita, 9.22, dove Krishna afferma che per coloro che si concentrano su Lui in modo esclusivo e restano costantemente fissi nella devozione, Egli si fa carico del loro yoga-ksemam. In questo contesto, yoga – la cui radice ha il significato di accoppiare o unire – significa acquisizione (per esempio di beni) e ksemam significa la sicurezza del possesso di ciò che è stato acquisito. Krishna dunque promette che per quanto riguarda i devoti completamente dediti a Lui e totalmente dipendenti da Lui, Egli Stesso si assume il compito (vahami) di far sì che essi ottengano quello che chiedono e possiedano con sicurezza quello che già hanno. Nel commento, Prabhupada chiarisce il significato spirituale di ksemam: Un devoto così, senza dubbio si avvicina al Signore senza difficoltà. “Questo è detto yoga. Per la misericordia del Signore un devoto così non ritorna più in questa condizione di vita materiale. Ksema indica la protezione misericordiosa del Signore. Il Signore aiuta il devoto a realizzare la coscienza di Krishna per mezzo dello yoga e quando questi diventa pienamente cosciente di Krishna, il Signore lo protegge impedendogli di cadere di nuovo nell’esistenza condizionata che è piena di sofferenze.”
In altri passi Prabhupada cita questo verso per dare la certezza che Krishna Si assume la responsabilità anche delle necessità materiali di un devoto. In questi casi il devoto viene liberato da ogni forma di ansietà per il futuro. Il termine ksema appare con un significato interessante nell’Undicesimo Canto dello Srimad-Bhagavatam che racconta dell’incontro del re Nimi con i nove Yogendra, i famosi elevati figli di Rishabhadeva, che viaggiavano insieme liberamente per tutto l’universo. Nimi chiede loro (11.2.30) di spiegare il significato di atyantikam ksemam – il bene supremo o la suprema posizione di pace e sicurezza. Questa frase è spiegata nel commento al verso: Secondo Srila Jiva Gosvami le parole atyanitikam ksemam, ossia il bene supremo, indicano quella situazione in cui non si può essere sfiorati dalla benché minima paura. Ora ci troviamo invischiati nel ciclo di nascita, malattia, vecchiaia e morte (samsara) e poiché tutta la nostra situazione può essere sconvolta in un istante, siamo costantemente preda della paura, ma i puri devoti del Signore possono insegnarci il metodo pratico per liberarci dall’esistenza materiale e abolire ogni tipo di paura.
Il professor Gilbert vede nell’incertezza del futuro l’origine dell’infelicità. Nel suo blog presenta degli esempi in cui dei pazienti ai quali i medici assicuravano che avrebbero contratto una malattia, erano più felici di quelli a cui i medici davano solo la possibilità di contrarre una malattia. Tuttavia possiamo capire che questa felicità è relativa. L’ansietà resta. Nessuno sa con certezza cosa gli riserva il futuro e tutti affrontano la grande sconosciuta – la morte – “la regione ignota da cui nessuno torna”, come Amleto osservava nel suo famoso soliloquio. La paura è sempre con noi, indipendentemente da come l’affrontiamo. Come Wiliam James aveva notato, e non ci vuole molto a portare “In piena luce il tarlo che risiede nell’intimo delle nostre consuete sorgenti di piacere”.
John Updike dà una metafora particolarmente impressionante: ”Noi tutti sogniamo e noi tutti restiamo atterriti all’ingresso della caverna della nostra morte; e lì dobbiamo entrare.” Il dottor Gilbert di Harvard ci ha dato informazioni sul problema della felicità, ma ha ancora molto da fare. I dottori eruditi di Mahaloka, i nove saggi “maestri dello yoga”, sanno quello che lui sa e ben altro ancora… Quando verrà il momento, non dobbiamo avere incertezze.
Ravindra Svarupa Dasa (dal sito ISKCON News)