La mediazione è un metodo di risoluzione dei conflitti, in cui un intermediario qualificato aiuta le due parti ad arrivare a una soluzione reciprocamente accettabile. In questa interessante intervista dello Integral Yoga Magazine, Joshua Greene (Yogeshvara Dasa), un mediatore esperto e istruttore della Gita, valuta la Bhagavad Gita attraverso la lente della mediazione.

Integral Yoga Magazine: Considereresti Krishna un mediatore?

Joshua Greene: Krishna è il mediatore originale. Nel capitolo nove, verso 29, dice: “Non invidio e non favorisco nessuno Sono parziale con tutti.” Questa è l’attitudine ideale di un mediatore. Krishna aveva cercato in molti modi di portare i Pandava e i Kaurava a un punto di accordo senza dover entrare in guerra. Aveva proposto varie alternative come la concessione di terre e l’aderenza alle autorità superiori. Era diventato un messaggero e aveva portato personalmente dei messaggi tra le due parti opposte. È andato anche oltre il ruolo di mediatore tradizionale e si è offerto di essere coinvolto in modo personale. Si era offerto di fare da consigliere per una parte e di dare i suo esercito all’altra. Questo va oltre   i soliti limiti, ma il punto da fare è che la mediazione non è estranea al contesto della Gita. Per certi aspetti la mediazione rappresenta il risveglio di una coscienza più profonda tra le parti che sono in disaccordo. Riuscendo a vedere l’altro non come nostro nemico, ma come qualcuno che vive la vita da una prospettiva diversa, lo stiamo rispettando come vorremmo che rispettasse noi: e questo è un principio spirituale.

IYM: In che modo Krishna affronta la causa profonda del conflitto?

JG: Il conflitto è raramente ciò che la gente pensa che sia. Siamo soggetti a imperfezioni, quindi non vediamo chiaramente: siamo illusi da maya, e spesso nutriamo delle aspettative irragionevoli. La prima regola della mediazione è consentire alle persone di esprimere quello che pensano e poi il lavoro del mediatore è aiutare le due parti ad arrivare a una più chiara comprensione del motivo per cui sono in una certa situazione.

Questo è esattamente quello che accade nella Gita. La Gita inizia nello stesso modo di una mediazione tradizionale. Arjuna parla a Krishna e descrive il motivo della sua presenza: “Vedo qui i miei nemici, so che devo combattere, ma non riesco a farlo.” Poi dà tutti i tipi di ragioni per quella che pensa sia la situazione. La prima cosa che Krishna dice è: facciamo qualche passo indietro, cerchiamo la causa originale. Voglio mettere da parte l’ironia del fatto che Krishna alla fine induce Arjuna a combattere la battaglia. La maggior parte delle mediazioni cerca di sciogliere i conflitti, ma in questo caso vediamo un risultato molto diverso, nel quale il dilemma in cui si trova Arjuna è causato anche dall’illusione, un’illusione che lo rende impotente e gli impedisce di agire come dovrebbe.

IYM: Qual è il ruolo di un mediatore?

JG: Non esiste un mediatore che risolve i problemi. Un mediatore aiuta le persone a trovare da sole una soluzione che sia reciprocamente accettabile. Krishna non ordina mai ad Arjuna di fare qualcosa! Krishna espone le cose, risponde alle domande di Arjuna, quindi ascolta e non pontifica. La conclusione della Gita non è un ordine del tipo “Combatti, uccidi e fai quello che dico”, ma piuttosto: “Fa quello che tu pensi sia meglio fare.” Questa è una buona mediazione ed è un principio importante nella vita spirituale. L’idea non è quella di andare da un guru, dimenticarci del nostro libero arbitrio e non essere più responsabili delle decisioni che prendiamo. Non è che il guru decide tutto e noi ci adeguiamo. Una comprensione spirituale matura non significa rinunciare alla responsabilità, ma assumersi le responsabilità con saggezza.

IYM: Cosa distingue un buon mediatore da un cattivo mediatore?

JG: Anche i mediatori sono soggetti ai tre guna (le qualità della natura): virtù, passione e ignoranza. Un mediatore nella modalità della virtù evoca fiducia e rimarrà neutrale e imparziale verso entrambe le parti; sarà paziente, calmo, giusto, incoraggiante e determinato. Nella modalità della passione, un mediatore spesso spingerà a trovare le soluzioni che ritiene siano le migliori. Sarà più interessato a un risultato positivo, ad ottenere un risultato, piuttosto che a condurre una mediazione spassionata e tenderà a favorire una parte rispetto all’altra. È probabile che si prenda il merito del successo piuttosto che dare credito ai contendenti. Nella modalità dell’ignoranza, un mediatore diventa facilmente frustrato, distratto, poco efficace e non ascolterà bene. I contendenti spesso diffideranno di lui. Un mediatore esperto non si aspetta di riuscire sempre a risolvere i problemi tra le parti in causa e se ci sarà battaglia, sarà condotta in modo educato. Un mediatore faciliterà le cose in modo che i litiganti possano arrivare a un accordo su come conciliare le loro differenze, o come separarsi se stanno pianificando un divorzio.

IYM: Un mediatore che segue i principi della Gita è avvantaggiato?

JG: Assolutamente si. Sta avvenendo qualcosa di affascinante nel mondo della diplomazia internazionale. L’opera dei mediatori religiosi viene riconosciuta come uno degli strumenti di negoziazione più efficaci per tre ragioni. La prima è che i mediatori che seguono una via religiosa non cercano il prestigio personale, ma cercano di servire. Nel caso di controversie questo atteggiamento di servizio conquista la fiducia di entrambe le parti che penseranno: “Se so di potermi fidare di te, ti dirò qualcosa che potrei non dire al mio nemico.” In secondo luogo, il loro carattere è ineccepibile, agiscono secondo quello che dicono e vivono una vita santa, quindi ci si può fidare di loro per suggerire onestamente le giuste soluzioni senza avere dei disegni nascosti. E terzo, operano in modo anonimo e a porte chiuse. Non sentirete parlare del lavoro di queste persone perché non hanno ego e non inviteranno la stampa ne cercherranno della fama. Quello che li muove sono le convinzioni fondamentali della vita spirituale.

IYM: Pensi che vedremo più applicazioni della Gita in vari campi?

JG: Senza dubbio. Ci sono delle aree ovvie, ad esempio quella dei dirigenti aziendali che assumono guru e swami per tenere lezioni sulla Gita nei luoghi di lavoro. Rispettare i dipendenti e i datori di lavoro come esseri spirituali tra le altre cose può creare fiducia e migliorare la produttività. Ma le applicazioni più significative stanno avvenendo nel campo della medicina, della fisica, della neurologia, delle scienze esatte. Le persone che mi hanno colpito più recentemente sono quei devoti della Gita che operano per mantenere la pace, nel dialogo, nelle tematiche ambientali, nel campo educativo e nel dialogo interreligioso. Qui vediamo le intuizioni della Gita sulla coscienza e il comportamento che agiscono e ottengono notevoli risultati in aree come conflitti armati, povertà e problemi ambientali. Tutti quegli operatori condividono la visione data nella Gita della sacralità di tutta la vita.

IYM: Qual è secondo te il messaggio centrale della Gita e le sue implicazioni per la mediazione?

JG: Nel secondo capitolo della Bhagavad Gita Krishna dà enfasi al filo conduttore che si ritrova in tutte le culture della saggezza, ovvero che noi non siamo il sé fisico o mentale. Siamo la coscienza che anima questi abiti esterni. La coscienza è una scintilla di Dio, e con alcune discipline come lo Yoga, la meditazione, la ripetizione di mantra e le pratiche contemplative, possiamo risvegliare quella coscienza che ora è sopita in noi. C’è un’evoluzione di coscienza che inizia nella prima infanzia ed è descritta nei Purana, o storie sanscrite. All’inizio, il nostro concetto di sé è limitato al cibo: “Io sono la mia fame”. Questo è il livello di annamaya, quando il cibo entra nella bocca. Poi il concetto di sé si espande man mano che il bambino cresce e può iniziare a vedere altre persone: “Oh ecco, questa è la persona che mi sta nutrendo”.

Questo livello è definito annamaya. Poi quando questa consapevolezza cresce, entriamo in manomaya, un livello nel quale iniziamo ad avere un senso di comunità e ci rendiamo conto di essere parte dell’umanità. Quando questa consapevolezza matura ulteriormente e noi diventiamo membri attivi di quella più ampia comunità, questo livello è definito vijnanamaya, il livello della saggezza. Ora comprendiamo non solo di essere membri di una comunità universale, ma anche i nostri obblighi nei confronti di quella comunità, e questo influenza il nostro comportamento, i nostri dovere, il dare in carità e il senso di partecipazione.

C’è uno stadio ancora più elevato, anandamaya, in cui ci rendiamo conto che la nostra responsabilità nei confronti del collettivo più ampio non è qualcosa che ci assumiamo perché è la cosa giusta da fare, la cosa morale o la cosa socialmente accettabile. Lo facciamo perché capiamo che c’è un po’ di noi in tutti gli altri. Tutto questo è descritto nella Gita quando Krishna dice che il più grande yogi è colui che, attraverso l’esperienza personale, riconosce l’uguaglianza di tutti gli esseri. In poche parole, qui c’è la formula per la pace. La conclusione è che il modo in cui viviamo la nostra vita è importante, è profondamente importante. È semplice come il vivere una vita pulita ed essere felici. Con dei semplici passaggi, come il dedicare un po’ di tempo ogni giorno alla concentrazione nello yoga, possiamo ottenere degli effetti profondi.

Yogeshvara Dasa

(Tratto dal sito web Gitawisdom)