Avevo imparato l’autodisciplina e il rispetto per il dovere, l’onore e la patria. Ma avevo un fremito interiore per un diritto costituzionale più basilare…

Ho incontrato per la prima volta i devoti del Movimento Hare Krishna nell’autunno del 1969, durante il mio primo anno all’Accademia Aereonautica,  a Colorado Springs. Con alcuni compagni ci stavamo godendo un raro weekend lontano dall’Accademia quando abbiamo visto un gruppo di devoti che cantavano nel centro di Denver. Le teste rasate degli uomini, gli abiti indiani che svolazzavano al vento, l’insolito ritmo dei tamburi e il canto anch’esso insolito, ci avevano colto di sorpresa. “Forse vengono da un altro pianeta”, abbiamo commentato scherzando. Concludemmo che dovevano essere degli hippy, e volevamo parlare con loro. Nonostante sei mesi di indottrinamento militare e nonostante la netta dicotomia tra la cultura militare e quella hippie, mantenevamo ancora i nostri vecchi ideali e gli ideali dei nostri coetanei.

“Siete fatti?” ho chiesto a uno di loro. “Fatto?” rispose. “Ho smesso con la droga molto tempo fa. La droga è artificiale. Una volta che hai provato il piacere della coscienza di Krishna, non hai più bisogno di droga.”

La sua risposta ci sorprese. Pensavamo che tutti quei giovani facessero uso di droga. Eravamo persino un po’ invidiosi di chi poteva godersi una vita allegra senza restrizioni, mentre noi eravamo costretti a rimanere per un anno sottoposti a una rigida disciplina, gli studenti più anziani che ci prendevano in giro, gli istruttori implacabili, le corse prima dell’alba con il fucile. Desideravamo ardentemente una vita senza regole. Anche se avevamo accettato volontariamente i rigori della vita dell’Accademia militare, provavamo ancora una certa attrazione per la beatitudine inebriante degli hippy. Ma questo devoto Hare Krishna mi stava dicendo che aveva già provato tutto questo e che ora stava provando un piacere che superava di gran lunga l’estasi della droga. Potrebbe essere vero, pensai, ma è già abbastanza dura essere un emarginato con i capelli corti. Come facevo a pensare di diventare un Hare Krishna senza capelli!

La mia educazione conservatrice mi costrinse a rifiutare i devoti Hare Krishna perché sembravano eccentrici e radicali. Presi la loro rivista Back to Godhead, ma mi sembrò troppo strana. Non l’ho mai letta.

Sono cresciuto da genitori cattolici in una piccola città in una zona dello Stato del Vermont chiamata Northeast Kingdom. Avevo assorbito i valori tradizionale della classe media americana e volevo avere successo.

Crescendo, la mia idea di successo cambiò. Alle elementari mi piaceva fare il chierichetto e pensavo di diventare un sacerdote. Ma nonostante frequentassi una scuola superiore cattolica, la mia aspirazione per una vita religiosa svanì. Alla fine degli anni sessanta rimasi influenzato dalle idee della contro cultura hippy. Ma il mio desiderio di successo era forte e avevo iniziato a pensare di iscrivermi in un college e di entrare nel mondo del lavoro.

Dopo il diploma di scuola superiore, sono entrato all’Accademia di aeronautica. La vita all’Accademia era impegnativa. Ci stavamo allenando per diventare “uomini completi”, pronti ad affrontare la sfida di preservare la pace in tempi instabili. Stavamo imparando l’autodisciplina e il rispetto per il dovere, l’onore e la patria. Ma sentivo un fremito per un diritto costituzionale più basilare: la libertà. Volevo essere libero di fare le mie cose. Ma avevo anche fatto una valutazione tra la libertà e la sicurezza finanziaria e avevo deciso di rimanere all’Accademia, allettato dai guadagni economici che sarebbero arrivati dopo la laurea.

Ma quando mi sono laureato all’Accademia avevo iniziato a chiedermi che tipo di successo volessi. L’Accademia mi aveva offerto molte opportunità. Mi ero prefissato e avevo raggiunto molti obiettivi. Non ero un perdente. Ma dubitavo del valore di tutti i miei obiettivi e dei miei successi.

Dopo essermi laureato all’Accademia di aeronautica nel giugno del 1973, sono stato nominato sottotenente e assegnato a una base dell’aeronautica militare a Sacramento come ingegnere civile. Lavoravo in un ufficio con quindici ingegneri militari civili, alcuni dei quali erano lì da vent’anni. In breve tempo capii che non volevo finire come loro. Sentivo le loro conversazioni e pensai a quanto vuote dovevano essere le loro vite. E io stavo seguendo lo stesso percorso. Perché avrei dovuto lavorare così duramente solo per arrivare a questo: più lavoro, più bollette, più problemi familiari? E avere abitudini insensate, come fumare, bere e guardare la televisione per ore. Nessuno dei miei colleghi era felice. Quando arrivavano la mattina, potevo leggerlo sui loro volti. Potevo vederlo alla fine della giornata, mentre stavano lì con i cappotti in mano, aspettando impazientemente che la campanella li liberasse dal loro ingrato lavoro.

E quelle erano le sfere più alte, gli impiegati con le loro arie di successo e sicurezza. “Ma stanno soffrendo tanto quanto chiunque altro”, pensai, “e io non voglio finire come loro”.

Cominciai a pensare più seriamente alla vita. Ricordai i momenti di domande filosofiche che mi ero posto nel passato. Al liceo a volte ponevo delle domande alle suore che insegnavano la lezione quotidiana di religione. Spesso ero insoddisfatto delle loro risposte. Dicevano che era una questione di fede, ma io non ero convinto della ragionevolezza di quella fede. Durante il mio ultimo anno avevo letto la mitologia greca di Edith Hamilton e avevo pensato che fosse credibile tanto quanto la dottrina cattolica. Pensavo che la religione dovesse essere più della semplice fede.

All’Accademia di aeronautica, la routine accademica completa, unita ai rigori dell’addestramento militare e alle attività extra-curriculari, mi avevano lasciato poco tempo per l’introspezione filosofica. E il pensiero liberale non era incoraggiato all’Accademia. Dopotutto, volevano degli ufficiali e dei soldati, non dei filosofi.

Come ingegnere, ho scoprii che la relativa libertà del mio lavoro dalle nove alle cinque, mi dava più tempo per pensare al significato della vita. Cercavo ancora delle risposte, anche se avevo notato che la maggior parte delle persone aveva smesso di fare domande. Avevano concluso, probabilmente per frustrazione, che nessuno ne sapeva più di qualcun altro, e che tutti stavano tirando a indovinare. Ma ero determinato a non vivere nell’ignoranza.

Cominciai a leggere molti libri che trattavano i problemi dell’esistenza umana: chi siamo? Da dove veniamo? Perché soffriamo? Esiste un Dio? Avevo già abbandonato la maggior parte delle convinzioni religiose che avevo durante l’infanzia. Non ero nemmeno sicuro che Dio esistesse. Tendevo a credere che non esistesse, e la maggior parte dei libri che leggevo rafforzava questa convinzione. Ne avevo abbastanza dei dogmi religiosi. Ora preferivo i filosofi occidentali secolari che rifiutavano Dio, e i mistici orientali, che concludevano che tutto era Dio. Nella mia ricerca speculativa giunsi a una conclusione provvisoria: tutto è relativo. Non esiste giusto o sbagliato, nessuna moralità assoluta. Ognuno ha ragione, perché ognuno agisce secondo la propria natura.

Volevo essere libero di agire secondo la mia natura. Armato delle mie convinzioni filosofiche, andai all’ufficio del personale della base e chiesi di essere congedato. La signora alla reception mi rispose con franchezza: “Sei un laureato dell’Accademia di aeronautica. Hai un vincolo di cinque anni con l’aeronautica. Non c’è modo che tu possa andartene prima, se non disertando.” Allora pensai: “Beh, forse non è tutto relativo”. Mi resi conto allora che anche se potevo dire che tutto è assurdo, relativo o insignificante, non potevo basare la mia vita su una filosofia del genere. Semplicemente non era pratica.

Stavo anche iniziando a sentirmi a disagio con la mia vita e la mia filosofia cinica. Sebbene apparentemente stessi cercando la verità, ero ancora attaccato a piccole banali abitudini come il fumare e il bere. E non mi piaceva dipendere da quelle sostanze per il piacere.

Continuavo a cercare di trovare il senso della vita leggendo, scrivendo, e a volte, per disperazione (e nonostante le mie tendenze agnostiche), pregando. Avrei dovuto essere soddisfatto della mia laurea, della mia promettente carriera, del mio appartamento, della mia auto sportiva, del mio stereo, della mia ragazza, ma non lo ero. Sentivo un bisogno insoddisfatto di conoscere la verità della vita.

Poi, un luminoso giorno di giugno a Sacramento, nel 1974, stavo curiosando in un mercatino delle pulci quando una ragazza mi porse un libro intitolato Krishna, l’Origine di ogni piacere. Quella sera, mentre iniziai a leggerlo, mi ricordai dei devoti Hare Krishna che avevo visto cantare per le strade a Denver, circa quattro anni e mezzo prima. Pensai che forse avrei scoperto perché non hanno bisogno di droghe. Con mio grande piacere trovai molto di più. Trovai delle risposte convincenti a dei problemi filosofici con cui avevo dibattuto per anni. Volevo saperne di più.

Il giorno dopo guidai per ottanta miglia fino al tempio Hare Krishna di San Francisco. Dissi alla ragazza che era alla porta di entrata che avevo ricevuto uno dei loro libri e volevo saperne di più su Krishna. “Oh, un’anima pura. Entra, per favore”.

Pensai che fosse una strana affermazione. Un’anima pura? Avevo appena spento una sigaretta sui gradini del tempio. La ragazza mi spiegò che le domande serie su Dio sono rare. Quando Dio vede una tale sincerità in una persona, si rivela. Mi aveva definito un’anima pura per il mio desiderio di conoscere Krishna.

Quel giorno parlai con i devoti per diverse ore e partecipai alla festa della domenica. Non avevo mai incontrato una filosofia così soddisfacente. Sembrava che collegasse tutti i fili delle varie filosofie che avevo conosciuto. Ha risposto a domande che mi portavo dietro fin dalle lezioni di religione al liceo. Ha persino risvegliato e rafforzato la fede in Dio che avevo assorbito durante l’infanzia.

La coscienza di Krishna era anche pratica. Questo era dimostrato dagli stessi devoti. Non erano delle persone ciniche e frustrate che mettevano a repentaglio le loro convinzioni filosofiche vivendo in un mondo assurdo. Erano felici, vivevano con gioia ed entusiasmo in un mondo che sapevano appartenere a Krishna. La loro vita aveva un senso perché tutto quello che facevano era connesso alla Verità Assoluta, Krishna, che dà un significato a ogni cosa.

Mentre parlavo con i devoti, ero sicuro che la coscienza di Krishna fosse la verità che stavo cercando. Il vero successo, pensavo, è diventare un puro devoto di Dio. Ma dubitavo di poter vivere come i devoti che si alzavano presto, seguono dei rigidi principi religiosi, rinunciano ai traguardi materialistici. La loro vita sembrava troppo austera.

Ma sapevo che dovevo provare. La filosofia sembrava così giusta. Mentre salivo in auto per tornare a Sacramento, istintivamente presi una sigaretta. “Va bene”, dissi a me stesso, “ma questa è l’ultima”.

Nel giro di una settimana avevo trasformato il mio piccolo appartamento degli alloggi degli ufficiali in un tempio, dove seguivo un programma mattutino di lettura, canto e meditazione simile al programma devozionale mattutino dei devoti di San Francisco. Ho iniziato a cantare sedici giri del mantra Hare Krishna ogni giorno e a seguire i quattro principi regolatori forniti nelle scritture vediche: niente carne, niente sesso illecito, niente ubriacature, niente gioco d’azzardo. Ho scoperto che l’autodisciplina che avevo imparato all’Accademia mi stava aiutando. Accettai la sfida della coscienza di Krishna con lo stesso vigore con cui ero solito affrontare una corsa a ostacoli.

L’emozione di diventare un devoto, è stata la mia più grande fonte di ispirazione. Ho iniziato a sperimentare, come i devoti avevano detto che avrei fatto, che vivere come un devoto di Krishna non è arido o difficile. È una vita gioiosa. Quando ho iniziato a praticare la coscienza di Krishna, ho provato una soddisfazione che mi era sfuggita durante i miei anni di successi materiali.

Ho trascorso i successivi sei mesi alla base durante la settimana e al tempio nei fine settimana, studiando i numerosi libri di Sua Divina Grazia A.C. Bhaktivedanta Swami Prabhupada. Ho imparato che potevo praticare la coscienza di Krishna pur rimanendo nell’Aeronautica. Ma mentre studiavo, mi sono convinto che volevo vivere con i devoti e aiutarli nella loro missione di distribuire la conoscenza della coscienza di Krishna agli altri. Dando agli americani la coscienza di Krishna, avrei potuto servire il mio Paese meglio di quanto avrei mai potuto farlo come ufficiale dell’Aeronautica.

Quando, in modo irresponsabile, avevo precedentemente cercato di andarmene dall’Aeronautica, la mia richiesta era stata respinta. Ma quando ho deciso di dedicare la mia vita al servizio di Krishna, Krishna ha organizzato tutto e nel gennaio del 1975 mi è stato rilasciato il congedo. Mentre lasciavo la base e mi dirigevo a San Francisco, mi sono sentito libero di vivere e servire con i devoti di Krishna.

Nagaraj das (dalla rivista Back To Godhead)

Alcuni giorni fa, il 16 ottobre, ho ascoltato una bellissima lezione che Nagaraj das ha dato alla festa della domenica in un centro ISKCON degli Stati Uniti. Sono rimasto colpito dalla sua profonda conoscenza delle scritture, dal suo conoscere nei dettagli le narrazioni dello Srimad Bhagavatam e dalla sua attrazione per Krishna. La sua voce fluiva sicura, le sue parole erano ricche di emozioni e di significato. Nagaraj das è anche da molti anni il responsabile della rivista Back to Godhead, e dopo una breve ricerca, trovo questo suo articolo del 1986 che racconta come ha conosciuto la coscienza di Krishna, erano i primi anni 70. Sono passati 50 anni da quei giorni ed è di grande ispirazione vedere un devoto così maturo e dedicato alla missione di Srila Prabhupada. (Sajjanasraya Das)