Siamo entrati nell’era post-Covid, e sono di nuovo in viaggio. Più precisamente nell’aria, volo da un terminal all’altro, e vorrei fare un piccolo tentativo di condividere con voi alcune ispirazioni spirituali in questa giungla urbana. Su un recente volo per il Cairo sono riuscito a trovare un posto speciale (quando sei alto più di un metro e 80 è un grosso problema!). Sfortunatamente, ogni vantaggio ha un prezzo e si ritrovano anche i neonati… e spesso sono bambini rumorosi, che piangono angosciati! Oggi è stato uno di quei giorni: tutto lo spazio del mondo per le gambe, ma c’era una colonna sonora urlante. Questo volo richiedeva da parte mia un po’ di controllo mentale.
Mi sono ricordato che Srila Prabhupada ci ha insegnato a pregare disperatamente mentre si pronuncia il nome di Dio, come un bambino che piange per la madre. Quello è stato per me un lampo di ispirazione. Ho preso il rosario per la preghiera, ho chiuso gli occhi e mi sono sincronizzato con ogni esplosione di pianto del bambino con la recitazione del mantra. Ho cercato di interiorizzare il suo pianto e incarnare la sua disperazione nella mia meditazione. E’ stato misteriosamente terapeutico! Ho scoperto che la mia meditazione cresceva in profondità! È interessante notare che il primo capitolo della Bhagavad-gita è intitolato “Visad-yoga” – lo yoga della disperazione. La vera connessione spirituale si attiva quando sentiamo dentro di noi una profonda urgenza, una che ci brucia dentro, e ci spinge ad avventurarci oltre quello spazio che non è più abitabile e non ci soddisfa più.
Il pianto fa parte della vita di tutti, in tutte le fasi della vita, e in tutti gli ambienti. C’è il grido del samsarika (colui che è impigliato nella vita materiale) – un grido di frustrazione, nato dalla frenetica e futile ricerca della sostanza nell’ombra. Un saggio descrive poeticamente che tutte le lacrime versate dal samsarika nel corso di varie vite ammontano a un intero oceano. Poi c’è il grido del sadhaka (un aspirante spiritualista che cerca la connessione con Dio) – un grido di disperazione per diventare serio, sincero e spontaneamente unito alla Persona Suprema. Infine, c’è il grido del siddha (l’anima perfetta) – un grido di ebbrezza, che scaturisce dall’inspiegabile gioia dell’amore divino nei suoi molteplici aspetti e sentimenti.
Non si tratta di evitare le lacrime, ma solo sapere per cosa si piange. Un grande santo ha descritto i templi come delle “scuole del pianto”, dei luoghi unici dove si può imparare a incanalare le emozioni del cuore per ottenere la comunione divina. In effetti, Srila Prabhupada menziona che questa è la definizione suprema di amore: far emergere il grido dell’anima per Dio. In quel viaggio al Cairo ho pregato che il pianto samsarika del bambino diventasse il pianto sadhaka di me stesso, così che un giorno diventasse il pianto siddha nel regno trascendente. Una buona lezione su nell’aria.
Sutapa das (da Sutapa Blog)