In questo articolo vi proponiamo la lettura dell’intervento di Don Santiago Michael (Dicastero del Vaticano per il Dialogo Interreligioso) durante la celebrazione del 50° anniversario della presenza dell’ISKCON a Roma, svoltasi il 1 giugno 2024 nella “Sala dei giusti” della Protomoteca del Campidoglio.
Sua eccellenza Signora Vani Rao, Ambasciatrice dell’India in Italia, Caro Dr. Ugo Papi, Consigliere del Sindaco di Roma per le relazioni Internazionali, Madhusevita das (Massimo Brioli), Presidente della Confederazione Italiana ISKCON, Parabhakti Dasa (Mauro Bombieri), Direttore delle Comunicazioni ISKCON Italia, Altri dignitari presenti e cari amici,
Sono molto felice di essere in mezzo a voi in rappresentanza del Dicastero per il Dialogo Interreligioso, nella festosa occasione della celebrazione dei cinquant’anni di presenza dell’ISKCON in Italia. Desidero innanzitutto trasmettere a voi, e in particolare ai seguaci del Movimento Hare Krishna in Italia, le calorose congratulazioni e i saluti fraterni di sua Eminenza il cardinale Miguel Ayuso, Prefetto del Dicastero, per questa importante pietra miliare nella storia di questo movimento spirituale mondiale.
Sono passati cinquantotto anni dalla fondazione dell’ISKCON ed è davvero degno di nota e di lode il fatto che il movimento religioso Gaudiya Vaishnava fondato da Srila Prabhupada ji (1896-1977) sia visibilmente presente in molte località italiane da mezzo secolo a questa parte. E’ quindi naturale e giusto che il giubileo d’oro della nascita dell’ISKCON in Italia venga oggi solennemente celebrato ricordando la vita, la missione e il messaggio del Fondatore del Movimento e del suo più venerabile responsabile spirituale A. C. Bhaktivedanta Swami ji Prabhupada. Considero le celebrazioni di oggi come un affettuoso tributo di ringraziamento per la ricca eredità spirituale che Bhaktivedanta Swami ji ha lasciato ai suoi seguaci. Vorrei limitarmi a condividere con voi alcuni aspetti di questa eredità e le lezioni che ne traiamo.
Condividere e promuovere la coscienza di Dio
Il primo di questi è l’aspetto della condivisione e della promozione della consapevolezza di Dio, che egli chiamava coscienza di Krishna, perché per lui Krishna era la personalità suprema della Divinità.
Non si può condividere con gli altri ciò che non si possiede. Per poter condividere la consapevolezza di Krishna o di Dio con gli altri, bisogna avere soprattutto in se stessi quella consapevolezza.
Seguendo questo ragionamento, è sufficiente dire che Bhaktivedanta Swami ji era una persona con la consapevolezza di Krishna o Dio. Raggiunse questa coscienza attraverso una devozione indivisa (ananya bhakti) a Krishna, praticata in molti modi, soprattutto attraverso la recitazione o il canto del “Krishna Mahamantra”. Egli incoraggiò i suoi discepoli a dedicare almeno una parte del loro tempo e delle loro energie al canto e all’ascolto del nome di Dio. Le pratiche del “kirtan” e del “sankirtan” hanno lo scopo di alimentare la devozione cantando il nome di Dio. Per lui la devozione o bhakti era la via della comprensione di Dio, l’autorealizzazione e la liberazione, il mezzo per l’unione con Dio. Bhakitvedanta Swami ji collegava la pace alla conoscenza di Dio, come affermato nella Bhagavadgita. Se non siamo in contatto con Krishna, il Signore Supremo, attraverso il semplice processo di cantare il santo nome di Dio, non possiamo avere la pace, sosteneva. Questa era la sua formula per la pace nei cuori, nelle famiglie e nella società.
La ragion d’essere di tutte le tradizioni religiose, per quanto diverse tra loro, è quella di condurre gli esseri umani all’esperienza e alla consapevolezza di Dio e alla sua vicinanza. Tutte sottolineano invariabilmente l’importanza dell’unione con Dio attraverso una devozione indivisa a Lui “con tutto il cuore, l’anima e la mente” (Matteo 22, 37), come dice la Sacra Scrittura. Nonostante molti credenti sembrino aderire a questo percorso, un numero crescente di loro, nel mondo attuale in cui la secolarizzazione, il materialismo, il consumismo e l’egoismo sono in aumento, tende a relegare Dio, la religione e la spiritualità in secondo piano. Non sembrano interessati agli insegnamenti religiosi che guidano la loro vita, le loro decisioni e le loro relazioni. In assenza di Dio nella loro vita, provano inquietudine e assenza di pace. Come credenti e insegnanti appartenenti a diverse tradizioni religiose, è nostro compito ispirare e incoraggiare i nostri compagni di fede, attraverso i nostri esempi personali, a orientarsi a Dio, a essere consapevoli di Dio e a dedicarsi a Dio in modo indiviso attraverso la preghiera, la meditazione, la ripetizione del nome di Dio, ecc.
Devozione: Un cammino verso l’unione con Dio e con gli altri esseri
Bhaktivedantaji credeva che la bhakti o devozione non fosse solo la strada per l’unione con i nostri simili. L’amore per Dio e l’amore per il prossimo sono quindi indissolubilmente legati. Si sostengono e si supportano a vicenda. Di fatto, sono due facce della stessa medaglia. Il grande comandamento della Sacra Bibbia dice: “Ama Dio con tutto il cuore, l’anima e la mente”, dice anche: “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Matteo 22.40). San Gregorio Magno, vescovo di Roma (a. 540-604), usò l’immagine di un albero per spiegare il rapporto tra l’amore di Dio e l’amore per il prossimo.
Diceva: “Nel terreno del nostro cuore Dio ha piantato prima la radice dell’amore per Lui e poi si è sviluppato, come un fogliame, l’amore per il prossimo” (Moralia, PL 75, 780-781). Santa Teresa d’Avila, mistica della tradizione cristiana cattolica, paragonava l’unione con Dio e l’unione con i fratelli e le sorelle a due candele di cera così perfettamente unite da formare una sola fiamma (cfr. Castello interiore o Le dimore). La Sacra Scrittura dice anche: “Se uno dice di amare Dio ma odia suo fratello, è un bugiardo; perché chi non ama il proprio fratello che vede, come può amare Dio che non ha visto?”. (1 Giovanni 4,20) Dice anche: “Chi non ama gli altri, non conosce Dio”. (1 Giovanni 4,8).
Questo ci chiama a coltivare rapporti di comunione e fraternità con tutti, indipendentemente dalla fede professata o dal Paese di appartenenza, con la convinzione che Dio è nostro Padre e che siamo tutti fratelli e sorelle.
L’amore per Dio deve porti naturalmente a investire il nostro tempo, le nostre energie e le nostre risorse al servizio degli altri, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei più vulnerabili della società. In quest’ottica, i progetti Hare Krishna Food for Life ispirati da Srila Prabhupada, come Bhoja Amritam, Annapurna, Saddimoota, Swasthya Ahara, Akshaya Patra, che provvedono a nutrire indigenti in molti luoghi, sono lodevoli. Dobbiamo però tenere presente che gli indigenti non hanno bisogno solo di una ciotola di zuppa, ma anche di un sorriso, di qualcuno che li ascolti e persino di una preghiera, magari recitata insieme. Il nostro servizio deve essere un servizio di gioia e di vicinanza fraterna.
Orientare con l’esempio personale
Vorrei attirare la vostra attenzione su un altro aspetto dell’eredità spirituale di Bhaktivedanta Swamiji: egli insegnava agli altri con l’esempio personale. Era convinto che la migliore forma di vita centrata su Di e consapevole di Dio, per un indù, o un cristiano o un musulmano o un credente di qualsiasi altra religione, sia vivere una vera vita di santità e di umanità. La nostra vita deve parlare della nostra fede. La nostra testimonianza di vita deve proclamare le nostre affermazioni su Dio. Per Papa Francesco, la fede “non è tanto parlare, quanto piuttosto parlare con tutta la nostra vita…vivere in modo coerente” (Discorso, Veglia di Pentecoste con i Movimenti Ecclesiali, 18 maggio 2013). Il suo predecessore Paolo VI, oggi venerato dalla Chiesa cattolica come santo, diceva che l’uomo moderno” ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, e se ascolta i maestri è perché sono dei testimoni” (Esortazione apostolica Evangeli nuntiandi,1965,41). A questo proposito, vale la pena di ricordare anche un detto generalmente attribuito, forse erroneamente, a San Francesco d’Assisi. Il detto è: “Predica sempre il Vangelo. Usa le parole se necessario.” Il messaggio è chiaro. Dobbiamo essere credenti autentici, che si tratti di cristiani, indù, musulmani buddisti, giainisti, sikh, ebrei o altro. Per concludere, auguro a tutti che l’esempio di Srila Prabhupadaji possa continuare a ispirarci a praticare ciò che professiamo e a diffondere la santità attraverso atti di gentilezza, umanità e perdono.
Grazie per la vostra cortese attenzione.